1/13/2013

Il plus-umano dell'animale. "Doglands" di Tim Willocks

(Tim Willocks con un greyhound)
   In un brano particolarmente intenso di Che cos’è la filosofia?, a proposito della vergogna e della sofferenza dell’uomo (non solo nelle situazioni estreme descritte da Primo Levi ma anche nelle condizioni di insignificanti bassezza e volgarità che pervadono le nostre “democrazie di mercato”), Deleuze-Guattari scrivevano: “per sfuggire all’ignobile, non resta che fare come gli animali (ringhiare, scavare, sogghignare, contorcersi): il pensiero stesso è talvolta più vicino all’animale che muore che non all’uomo vivo, anche se democratico”. Questo brano (che di sicuro ammicca alle contorsioni linguistiche della prosa narrativa di Franz Kafka, dove gli animali abbondano), mi è venuto in mente leggendo un piccolo recente capolavoro narrativo interamente dedicato alla sofferenza animale, più precisamente quella dei cani: Doglands, dell’inglese Tim Willocks, prolifico autore di thriller e romanzi storici, o forse in realtà soprattutto di western, intendendo con questa parola l’epica contemporanea per eccellenza, nonché il più esistenziale tra i generi di romanzo. Anche Doglands (letteralmente “Terre dei cani”) è un western, storia appassionante di ribellione e di liberazione che è già un classico. E non parla solo di cani, in effetti, ma della triviale civiltà e del crudele stile di vita di noi umani, visti attraverso la soggettiva dello sguardo (e del linguaggio narrativo) di un cane.
   Non è vero allora, ho pensato, che dell’animalità negli ultimi anni si siano occupati soltanto i filosofi. Oltre a Gilles Deleuze ci sono stati, è vero, gli studi di Giorgio Agamben sulla “vita nuda”, che proseguivano le ricerche bio-politiche di Michel Foucault, poi esplicitamente dedicate a una fenomenologia dell’animalità (soprattutto in L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri). Mentre la filosofa francese Elizabeth de Fontenay (curatrice tra l’altro dei “Trattati sugli animali” di Plutarco), osservava come nel ‘900 autori ebrei e perseguitati - Kafka, Singer, Canetti, Adorno - iscrivendo con insistenza l’animale nelle loro opere in funzione di denuncia di quell’umanesimo razionalista da cui discende il nazismo stesso, “hanno presentito negli animali altre vittime, paragonabili fino a un certo punto a se stessi e ai loro prossimi. Hanno fatto spazio, nella loro scrittura, a quell’altro disastro che costituisce il paradosso della modernità, e che consiste nella dismisura del dominio esercitato dall’uomo sulla natura, su tutto ciò che è”. Nulla illustra meglio la spietatezza di questo dominio economico della descrizione degli allevamenti di carne nelle straordinarie poesie di Ivano Ferrari, Macello (Einaudi, serie bianca), e nell’inchiesta narrativa dello scrittore Jonathan Safran Foer Se niente importa. Perché mangiamo gli animali (la prefazione era del nobel J. M. Coetzee, autore di una raccolta di testi dal titolo La vita degli animali).
   Ricordo poi un insolito libro di racconti di Arthur Bradford (Dogwalker, Einaudi) in cui, accanto a ciechi, bambini poveri e caratteriali, vecchi, alcoolizzati e handicappati, appaiono cani a tre zampe, gatti, molluschi, e tantissimi cani, le cui storie si intrecciano con gli umani (era dai romanzi di Philip K. Dick che non apparivano personaggi così, o appunto dai racconti di Kafka). E mentre scopriamo che la letteratura, non solo quella “per l’infanzia”, si popola di animali, ci accorgiamo che nella nostra epoca la sofferenza animale getta di riflesso molte ombre sui tanto proclamati diritti dell’uomo. Ma scopriamo anche che, nonostante la cesura, matrice di ogni ulteriore discriminazione, che segna il confine nel vivente tra “l’umano” e “l’animale”, la vita quando è nuda e offesa non presenta molte dissomiglianze, e l’inermità dell’animale lo rende paradossalmente più umano dell’uomo, forse plus-umano, se non troppo umano. Un po’ come l’affamato, scriveva Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia, che è più uomo degli altri uomini.
   Il magistrale romanzo Doglands è l’ultimo in ordine di tempo: storia di fughe, lotte, ribellioni, sacrifici e agnizioni, dove i personaggi sono esclusivamente cani in conflitto con umani malvagi, cani che combattono per la propria salvezza. L’eroe è Furgul, cucciolo all’inizio della storia, nato a Dedbone’s Hole, allevamento o campo di prigionia per levrieri (greyhounds) destinati alle corse. La mamma, una campionessa, ha amato un cane libero, un “fuorilegge”, da cui è nato Furgul, non quindi di pura razza; e senza questo requisito lì i cani vengono uccisi e gettati in fosse comuni. E’ così che, aiutati dalla madre, Furgul e le sue sorelline scappano avventurosamente dal campo. La storia è il romanzo di formazione di un cane in un mondo ostile, alla ricerca delle mitiche doglands dove “si corre con il vento”, ma soprattutto alla ricerca del padre, di se stesso, di un senso. Nel suo apprendistato alla vita, Furgul sfoglia come una cipolla la nostra civiltà coi suoi puri occhi di cane che ci incantano. In un canile municipale, nelle gabbie, incontra il padre, che prima di lasciarsi uccidere con gli aghi (il suo sacrificio provocherà una risolutiva insurrezione civile di tutti gli altri cani), dà al figlio gli ultimi insegnamenti sui “Grandi”, cioè gli uomini: “Quello che devi capire è che non si tratta solo di noi cani. I Grandi sfruttano tutti gli animali. Tutti noi abbiamo qualcosa che interessa loro. Sfruttano ogni risorsa della natura, e credono che la Terra sia stata creata solo per loro. Prendono e usano tutto ciò che vogliono, e quando si consuma o si annoiano a usarlo si limitano a buttarlo via. Tra tutte le forme di vita, i Grandi sono quella più avida, più spietata, più egoiosta, più traditrice. E la verità più terribile è che si trattano gli uni con gli altri con crudeltà, disonestà e stupidità ancora maggiori di quelle che riservano a noi cani. Ci rendono innocui con museruole, collari e catene, sì, ma le catene che gli uomini legano gli uni agli altri - e a se stessi - sono più resistenti delle sbarre di queste prigioni”.
   Confesso di essermi commosso più volte leggendo d’un fiato questo libro, e di avere riso altrettante volte per lo humour con cui il nostro mondo viene osservato e messo a nudo nelle sue catene dallo sguardo del cane che diventa se stesso, e dall’ironia della scrittura di Tim Willocks che inventa un linguaggio e uno sguardo canini non esattamente facile da tradurre, ed efficacissimi nella rappresentazione dell’inautenticità sociale degli umani. (Che io sappia, a parte certo racconti di Tolstoj, c’era riuscito solo Stephen King in un breve capitolo di Il gioco di Gerald, dove si mostra la soggettiva di un famelico cane randagio). In Francia Doglands ha appena vinto il primo premio per il miglior romanzo europeo 2012 per gli adolescenti, pur essendo i cani di Tim Willocks immuni da qualsiasi pedagogismo e agli antipodi dell’antropomorfismo più o meno disneyano, e preservando intatta la loro alterità animale.
   Inno alla libertà, in Doglands i cani intonano dei canti che raccontano la loro mitologia e la loro mistica: “se corri nel vento da vivo, dopo la morte, come ci dice la canzone, ti unirai al vento. Diventerai il vento…” “Un cane libero non muore mai”, dicono, “continua a correre”. Mi è capitato di immaginarli nella loro favolosa e pacifica terra ascoltando la voce nasale di Bob Dylan (amato, lo so, anche da Tim Willocks) cantare proprio upon the beach where hound dogs bay at ships with tattooed sails...”, “sulla spiaggia dove i segugi abbaiano verso navi con vele tatuate, dirette verso i cancelli dell’Eden”. La canzone, naturalmente, è Gates of Eden.


(articolo uscito su l'Unità di domenica 13 gennaio 2013)