3/02/2012

Lui è vivo e noi siamo morti (per Philip K. Dick a trent'anni dalla "scomparsa")


Nella sua bella biografia di Philip K. Dick Io sono vivo e voi siete morti, lo scrittore Emmanuel Carrère ricorda la telefonata che una notte del 1966 Philip K. Dick ricevette dalla strana coppia Timothy Leary e John Lennon. Entrambi avevano appena letto con entusiasmo il romanzo di Dick Le tre Stimmate di Palmer Eldritch dell’anno prima, riconoscendovi il motivo psichedelico sotteso all’imminente album dei Beatles Seargent Pepper’s Lonely Hearts Club Band, e soprattutto alla canzone Lucy in the sky with Diamonds, dedicata all’Lsd anche nell’acronimo del titolo. A Philip K. Dick, che di droghe psichedeliche non aveva in realtà nessuna esperienza (ma abusava di anfetamine per lavorare), la coincidenza storica che fece riconoscere in quel suo romanzo distopico “il gran libro dell’acido” favorì la diffusione dei suoi libri, e la neonata comunità hippie di San Francisco diede sollievo alla sua solitudine di scrittore di science fiction. Non aveva bisogno di droghe per pensare che “se la realtà è un gigantesco complotto, la paranoia è il modo migliore per raggiungere la verità”. Di fatto, alla sua morte prematura (2 marzo 1982) aveva ormai fama di profeta. E la parola va presa alla lettera: colui che parla a nome di qualcun Altro, del Divino. I suoi ultimi libri, la trilogia “teologica” di Valis (e Radio Libera Albemuth) mettono a nudo questa fusione tra scrittura e mistica. Ne La trasmigrazione di Thimoty Archer si vede anche un commovente Alan Watts (colui che più diffuse lo Zen negli anni ’60) elargire perle di saggezza nella sua barca ormeggiata al molo di San Francisco, augurando agli squattrinati discepoli di essere venuti non per ascoltarlo, ma per il panino che avrebbero ricevuto alla fine. Rileggere Philip K. Dick, oltre alla qualità letteraria, l’ingegno delle trame, l‘acutezza filosofica delle sue domande (che traversano secoli di psicologia del profondo e di ricerca trascendentale) significa immergersi nel brulichio della “controcultura” di un’epoca che, come il ritorno del rimosso, sta di nuovo fecondando l’attuale.

   Nel trentennale della sua scomparsa, Fanucci pubblica un inedito di Dick degli anni ‘50, Lo stravagante mondo di Mr Fergesson, precedente ai romanzi di sf. Ma non vi è differenza. I personaggi umani o troppo umani e il sovrapporsi di realtà e allucinazione sono sempre i suoi tratti distintivi. Se spiega la realtà contemporanea meglio delle analisi di Jean Baudrillard e dei filosofi, e il film Matrix gli deve quasi tutto, per tutta la sua vita Philip K. Dick fu un disadattato. A parte l’estrema povertà, confessò, “scrivere fantascienza è un modo per ribellarsi, la fantascienza è una forma d’arte ribelle e ha bisogno di scrittori con cattive inclinazioni, come per esempio quella di chiedere sempre Perché?, o Come mai?, o Chi l’ha detto? Questo atteggiamento è sublimato in alcuni temi tipici delle mie storie, come: L’universo è qualcosa di reale?, oppure: Siamo davvero uomini, o solo macchine?”
(uscito su Venerdì di Repubblica del 2 marzo 2012)

[sullo stesso argomento, nel sito: http://www.beppesebaste.com/articoli/pkd_mondi%20poss.html ]

3/01/2012

"An Angel in the Wall". Sulla pittura di Cathy Josefowitz (italian and english version)


Lunedì 5 marzo si inaugura a Milano una mostra dei nuovi lavori di Cathy Josefowitz, Meditation In & Out. Sono grandi tele, a volte quasi installazioni, e anche alcune bacheche che mostreranno aperti i suoi carnet di disegni.
   Ritiratissima dal mondo dei traffici d'arte e di chiacchiere sulla medesima (nonostante questa esposizione no profit avvenga nella sala espositiva di Sotheby's a Milano), Cathy Josefowitz è una pittrice che potrebbe far propria, come divisa, una frase di Merleau-Ponty su Cézanne che ho citato spesso per me (sostituendo lo scrivere con il dipingere): "Non voleva persuadere la gente, preferiva dipingere". E poiché per anni è stata coreografa e danzatrice (e si vede), la concerne totalmente anche quella frase di Paul Valery citata in un altro testo da, guarda caso, ancora Merleau-Ponty: "Le peintre apporte son corps".
   Nel catalogo della mostra, oltre a una presentazione di Philippe Daverio, c'è un mio testo-dedica che offro qui in lettura in anteprima. L'ho intitolato come un suo disegno pubblicato in fondo al post (che non sono riuscito a mettere in orizzontale), "An Angel in the Wall". Eccolo, seguito da una traduzione in inglese.

“An Angel in the Wall”
        Non ho mai cessato di imparare guardando e ascoltando il lavoro di Cathy Josefowitz in oltre vent’anni di frequentazione. Che, per esempio, la danza è in ogni gesto, compresa l’immobilità. Che la pittura (la bellezza) è dappertutto. Che bisogna prendere molto sul serio i colori (che più tardi ho imparato a riconoscere come Creature). E che prendere sul serio significa giocare, giocare instancabilmente. Quando parliamo dei suoi quadri, in genere in lingua francese, Cathy J. non li chiama mai così, tableaux, al maschile, ma peintures, “pitture”, al femminile. Penso sia importante, e che non sia solo la traduzione dell’inglese paintings.

   Significa in primo luogo accentuare la materia di cui sono fatti, la gestualità e la fisicità del dipingere oggi quasi desuete in un’arte sempre più immateriale - fisicità che Cathy J. ha trasportato con disinvoltura e rigore, nel corso degli anni, dalla coreografia alla pittura e viceversa. Sottintende quindi la ritualità assorta e gioiosa del suo lavoro, cerimonia di solitudine che prelude alla creazione di mondi in uno spazio meditativo e sacro – sempre per terra, come la danza o il famoso dripping di Pollock. Sottolinea infine la feconda e irriducibile femminilità (che non c’entra con la partizione in uomini e donne) di tutto questo, e tutt’uno con un senso di intima e perseguita felicità: come nella candida e serissima confessione di Cathy nel film che le ha dedicato François Lévy Kuentz, Painting Dancing: “je n’ai pas le choix, j’ai besoin de peindre”; “senza la pittura non potrei vivere”.

   Guardo dunque le pitture di Cathy J. degli ultimi due-tre anni, Meditation in and out, e vedo una straordinaria coerenza e continuità con tutto il suo lavoro, in un’ascesa e un’ascesi ulteriori. Un “trascendere”, direi etimologicamente: movimento di attraversamento (trans) e di risalita (scando); un oltrepassamento, un movimento che porta al di là... Che porta in uno spazio ulteriore dove la materia pittorica e il colore non solo prevalgono assorbendo forme e figure, ma il cui potere di assorbimento è tale da risucchiare anche il nostro sguardo, invitandoci a camminare o nuotare nel colore, traslocare e inoltrarsi dentro le tele, come in quel teatro o danza in cui non si distingue tra chi è in scena e gli spettatori.

   Riepilogo mentalmente. Dalle forme sullo sfondo in perpetuo movimento e danza, che molti anni fa avevo chiamato scherzosamente enjambements (rifondando in senso coreografico una figura retorica della poesia), alle Sedie e ai Mezzi di trasporto, il percorso di Cathy J. è una continua espansione e contrazione, sistole-diastole, dello sfondo-colore e delle forme; così come dai Collages ballerini alle Preghiere che avvolgono figure ormai astratte e geometriche con un simbolico tallith - lo scialle da preghiera che vela e che svela, che mostra mentre nasconde - passando per la serie delle Porte (“porte senza porta”) fino alle quasi installazioni di oggi: tele che proliferano, si concatenano e diventano ambiente, che invitano non solo alla contemplazione, ma all’abitarvi dentro. Ricordandoci che "contemplazione" significa proprio questo: “fare il proprio tempio”.

   Questa mostra, Meditation in and out, contiene un altro oltrepassamento: la preghiera dei corpi nel loro amplesso e il kamasutra dei muri e degli angoli; il divenire angelico degli angoli (“ton angle gardien”, le ho detto scherzosamente, "il tuo angolo custode"). La geometria dei muri prolunga la geometria de corpi in un’evocazione del “mosaico” (Mosaica era il titolo di una mostra degli anni italiani di Cathy J., dove le variazioni del Bacio di Rodin emergevano in una sorta di ascensione su muri e pareti di architetture romaniche). In Meditation in and out la geometria erotica si innesta in una poetica della sparizione. Il colore seduce diventando muro e assimilando a sé le persone e le ombre, e l’invito dell’oltre rende invisibili, in un appello insistente del fuori-campo, del fuori dallo sguardo. E’ un’altra modalità del trascendere, quella ricerca estetica del “divenire fantasmi” (o angeli), in cui insisté Francesca Woodman, altra grande artista (nella fotografia) coetanea di Cathy Josefowitz. Forse per Cathy è stato proprio lo scialle, tallith, nella sua dialettica del velo, il punto di svolta - velare svelando, svelare velando – ciò che concentra in sé pittura, femminilità e rituale, cioè preghiera.
   Che cosa è una preghiera a colori, o ai colori? (« Aux belles couleurs », amiamo scherzare da anni sognando una galleria d’arte con questo nome fanciullesco – “aube elle coule heures”, “oh belle cool her”, “eaux belles coulèrent”, aubes et eaux qui coulent des couleurs maintenant et au fil des heures, etc.). Credo che sia devozione in atto. Cioè, anche, gioco.
   Non esiste, mi pare, un verbo che dica l’atto della devozione, ma se ci fosse io lo immaginerei intransitivo – con la stessa grazia, gratuità, dell’intransitività del pregare, del giocare e del dipingere. Anche questo imparo dalle pitture di Cathy J.
English version:

In the more than twenty years since I have met Cathy Josefowitz, her work has been for me a constant source of learning and multi-sensory inspiration. I have learnt, for example, that dance is in every movement, including stillness. That art (beauty) is everywhere. That colour must be taken very seriously (I have learnt to recognise it as a Creature). And that to take things seriously, however, means to play, to play unceasingly. When we discuss her paintings, and that usually happens in French, Cathy never refers to them as tableaux, using the masculine noun, but rather as peintures, which is feminine. I believe this is important, and that it is not merely the English translation of paintings.

   Firstly, it means emphasising the matter her works are made of, underlining the gestural and physical quality of paint, something which is unusual in the increasingly immaterial practice of contemporary art. It’s a physical quality which Cathy has brought over, with rigour and confidence, from choreography to painting and back. It underlies the absorbed and joyous sense of ritual in her work, a ceremony of solitude that prepares the creation of worlds in a contemplative, sacred space – always taking place on the ground, just like dance or Pollock’s drippings. It also stresses the fertile, untameable femininity (something that’s well beyond the definition of ‘men’ and ‘women’) that imbues her work. There is a quality of intimate, doggedly pursued happiness in her work, something which is evident in the confession captured by François Lévy Kuentz’s in the film about her Painting Dancing: “je n’ai pas le choix, j’ai besoin de peindre”; “I have no choice in the matter; I need to paint”.

   As I look at Cathy J.’s latest work, Meditation in and out, I see an extraordinary coherence and continuity with all of her previous work, in a constant ascent and renunciation. Something “transcendent”, and I mean it etymologically: a movement which crosses (trans) and rises (scando): an overcoming, a flow which takes us beyond… And which leads us into a further space where painted matter and colour prevail not just by absorbing form and figures, but also because their power of absorption sucks in our very gaze. It invites us to walk and swim in the canvasses’ colour, move in them and settle in them, just like in dance-theatre where the distinction between viewer and performer becomes irrelevant.
  
   To sum-up mentally: from the forms in the background in perpetual movement and dance, which, a few years ago, I jokingly named enjambements (restating a poetic rhetorical figure with a choreographic imagery), from Sedie to Mezzi di trasporto, Cathy’s itinerary is one of continual expansion and contraction, a systolic-diastolic movement between background and forms. As in the Collages dancers and the Preghiere which envelope abstract and geometric figures with a symbolical tallit - the praying shawl which equally veils and unveils, which reveals as it conceals - onto the Porte series (“doors without door”) and up until the more recent quasi-installations: canvasses which proliferate, become linked to each other and create an environment, which invite us not just to contemplation but to inhabit them. This reminds us that contemplation means exactly this: “to build one’s own temple”.

   This exhibition, Meditation in and out, holds a further kind of trespassing: the prayer of the depicted bodies as they melt in each other , and the kama sutra of walls and angles; the angelic mutation of the walls (“ton angle gardien”, I told Cathy jokingly). The geometry of the walls prolongs the geometry and linearity of the bodies in a reminiscence of “mosaics” (Mosaica was the title of an exhibition of Cathy’s “Italian years”, where the variations of Rodin’s Etreinte emerged into a kind of ascension on Romanic architectures). In Meditation in and out this erotic geometry is mixed with a poetics of disappearance. Colour seduces us by becoming a wall and assimilating people and shadows, both of which are made invisible by the invitation to a ‘beyond’ , to something which is off-screen, out of our gaze’s reach. It is another modality of transcendence, this aesthetic exploration of the “becoming ghostly” (or angelic), something much similar to Francesca Woodman’s work, another great artist ( a photographer) and contemporary of Cathy’s. Perhaps the turning point for Cathy was the tallit, the shawl – the veiling, unveiling, revealing by obscuring; the element that concentrates in itself painting, femininity and ritual – that is, prayer.
   What is a prayer in colour, or to colours? (« Aux belles couleurs », for many years we have dreamingly joked about opening a gallery with such childish names - “aube elle coule heures”, “oh belle cool her”, “eaux belles coulèrent”, aubes et eaux qui coulent des couleurs maintenant et au fil des heures, etc.). I believe it’s devotion in the making. That is, play.
   I don’t believe a verb apt to describe the act of devotion exists, but if it did exist, I would imagine it as intransitive – with the same grace, gratuity and 'objectlessness' of the acts of praying, playing, and painting. This, too, is what I learn from Cathy’s oeuvres.